lunedì 4 maggio 2020

Il senso di ciò che facciamo... anche in questo periodo

articolo uscito su Lotta di Classe - 19 aprile 2020


Che viviamo tempi grami e difficili lo sapevamo già. Ciò che non potevamo immaginare è che dal 24 febbraio di quest’anno, prima in Lombardia ed Emilia e via via dappertutto, le nostre esistenze potessero cambiare così drasticamente, e in peggio: diffusione del Covid-19, aumento enorme dei morti rispetto ad analoghi periodi precedenti, attività lavorative chiuse, persone chiuse in casa, stato di polizia effettivo nel consenso pressoché unanime.
Venivamo da un periodo che se era possibile ci aveva già fatto vedere tutto il peggio: diritti dei lavoratori sempre più attaccati (e non dobbiamo solo ringraziare le destre e i padroni, ma anche le cosiddette “sinistre” (?) coi loro sindacati conniventi); un consenso sempre più evidente per il fascismo, in una narrazione distorta e ignorante di ciò che fu in realtà; cementificazione continua; sfruttamento; sostanziale menefreghismo della più importante questione del momento –la crisi ambientale-, perché profitto e ambientalismo non possono andare d’accordo; massacri nell’indifferenza di centinaia di migliaia di persone (vedi in Kurdistan, in Siria, ecc) ed è normale; il razzismo più becero che gioisce senza alcuna vergogna per la morte di esseri umani.
Dall’esplodere della pandemia, la nostra esistenza è ancor più peggiorata.
Sul piano sindacale, chi fa sportello assiste ad una crescita esponenziale dei casi: le situazioni problematiche personali sono aumentate, perché per la prima volta davvero nell’età repubblicana, la paura reale della miseria non è più così lontana per gran parte della popolazione, data la pesantissima crisi economica, la chiusura dei posti di lavoro, il ricorso enorme a forme di sussidio ed ammortizzatori sociali, che non sempre sono anticipati e sui quali non si hanno garanzie durature. La realtà dice che oggi sempre più persone dipendono dall’aiut(in)o dello stato, e questo ha un costo, politico e sociale prima ancora che economico.
Ma uno degli aspetti più pesanti è il tentativo di annullare la libera rappresentanza e l’azione sindacale: giustificato dall’emergenza sanitaria, diritti che si pensavano assodati (uno per tutti: il lavorare in sicurezza) sono stati di fatto spudoratamente messi in discussione in virtù dei bisogni della produzione industriale. Se la mancanza di sicurezza sul lavoro anche prima era già una realtà di fatto (pensiamo all’incessante stillicidio quotidiano di morti sul lavoro; pesiamo a situazioni come ad esempio l’Ilva), almeno il sistema “democratico” liberista cercava di ammantarlo con leggi ad hoc o con un minimo di dibattito, oggi pure questa coperta è saltata: chi comanda è Confindustria, con buona pace di chi si ammanta di illusioni politiche sinistrorse. Se non fosse stato per la decisa reazione di milioni di lavoratori, che ad un certo punto hanno messo in difficoltà gli stessi sindacati confederali che non erano più in grado, sui posti di lavoro, di gestire questo malcontento, probabilmente pochissime aziende avrebbero chiuso, tra quelle che lo hanno fatto.
Ma l’illusione democratica, come si è visto, è stata squarciata pure rispetto al diritto della libera rappresentanza: in Italia, e noi lo denunciavamo già prima ma ora il quadro appare più netto e si fa fatica pure a cogliere quelle rare e meritorie “finestre” precedenti, nel mondo del lavoro NON ESISTE alcuna democrazia: non è uno slogan. Sempre con la giustificazione dell’emergenza, dapprima sono stati annullati scioperi (tra i quali, l’8 marzo) e per carità, molto probabilmente è stato corretto evitare assembramenti. Ma via via il quadro si è definito ancora meglio: ed allora ecco che ai vari tavoli di gestione dell’emergenza sono stati convocati solo determinati sindacati (i confederali) e praticamente col solo compito di ratificare e addolcire la pillola ai lavoratori dei vari provvedimenti presi. Il sindacalismo di base, pressoché ovunque, è stato bypassato, con somma beffa per chi, come USB, guardando al sindacalismo confederale ed ambendo a diventare la quarta confederazione, nel gennaio 2014 ha “strappato” rispetto agli altri sindacati di base, ed ha sottoscritto un accordo sulla rappresentanza che baratta i diritti di essa con ulteriori limitazioni al diritto di sciopero. A dimostrazione che non basta essere più radicale dei sindacati concertativi per essere realmente “di base”: questo è un modello organizzativo ed una prospettiva di azione ed obbiettivi. Ebbene, in questa fase, neanche firmare i “loro” accordi su una (parziale) rappresentanza è servito. Oggi in Italia non esiste il pieno diritto da parte dei lavoratori ad esprimere liberamente la propria volontà sindacale, perché questa non viene riconosciuta e, se c’è, si cerca in ogni modo di vanificarla. Solo lottando quotidianamente sul posto di lavoro, autorganizzandosi coi propri colleghi, è possibile sperare di invertire questa situazione.
In questo quadro, il sindacalismo concertativo ha confermato di essere troppo legato al mondo politico ed economico per poter ambire ad un ruolo diverso rispetto alla gestione dei lavoratori e ad una (sempre meno estesa) legittimazione di scelte altrui, e di essere realmente un ingranaggio funzionale alla prosecuzione di un determinato sistema, nonostante la dignità di talune situazioni e personaggi a livello territoriale.
Piuttosto, il sindacalismo di base, tutto, poteva e doveva ambire ad un altro ruolo, ma non ha saputo cogliere il momento, presentandosi ancora una volta debole e frammentato, ricercando in alcuni casi più il proprio tornaconto che una presenza determinata e compatta su punti-chiave comuni. Anche nell’analisi, molto spesso non si è andati più in là della riproposizione di vecchie formule ormai stantie, quali ad esempio statalizzazione e nazionalizzazione, come se ipotesi da neo-capitalismo di stato fossero positive e non fosse invece lo stato corresponsabile (insieme al padronato) della situazione venutasi a creare. Affermare, ad esempio, che vada privilegiata esclusivamente la sanità pubblica invece di quella privata è una verità assoluta e deve diventare una base per tutte le nostre prossime mobilitazioni, proporre invece forme quasi sacralizzate del significato di potere statale significa essere fuori dalla realtà, legittimare successivi e conseguenti aumenti repressivi anche in funzione anti-operaia e non aver capito dove sta il problema. Infatti, puntare alla gestione pubblica delle risorse è una cosa, mitizzare la centralizzazione statale un’altra: non sono concetti di lana caprina, sono proprio modelli concettuali e pratici di riferimento che differiscono. Per fortuna, comunque, va sottolineato come un po’ ovunque, a macchia di leopardo, ci siano state realtà sindacali che hanno cercato di resistere: i diritti sono conquiste e non gentili elargizioni, e vanno difesi. Da qui dovremo cercare di ripartire, aldilà delle varie sigle. Con tutte le critiche che possiamo fargli e farci, solo il sindacalismo di base ha rappresentato comunque un argine in questo periodo, ben più di un antagonismo politico – libertario e comunista in tutte le sue accezioni- che di fatto è risultato totalmente irrilevante nella difesa di classe, quantunque sottoposto a limitazioni oggettive.
Sul piano sociale, la situazione è stata analogamente drammatica: una nazione intera chiusa in casa. Il sottoscritto non ha alcuna competenza medico-sanitaria, per cui, umilmente, ritengo che seguire i dettami degli esperti del settore sia saggio ed opportuno, anche se è necessario individuare il confine tra tutela della sicurezza collettiva ed eccessi frutto di confusione e alla lunga forieri di situazioni insostenibili. Il Governo per alcuni è stato coraggioso, per altri confuso e debole: senz’altro, è innegabile l’enorme difficoltà della gestione di un evento simile, fossimo stati anche in una Repubblica Libertaria. Allo stesso tempo, complottismi di variegata natura restano quel sono: fenomeni tra il ridicolo ed il pericoloso, che oltretutto minano indubbiamente, agli occhi della gente che tende a generalizzare, la credibilità di chi, invece, due riflessioni critiche vorrebbe comunque farle. Attenzione poi che la questione-sicurezza non diventi un pretesto per provare a limitare ulteriormente le libertà personali e collettive: già oggi si parla di app sugli spostamenti, in un quadro complessivo in cui vivere in una realtà orwelliana, che già è così sotto molti aspetti, rischia realmente di diventare ancora più assodato e paralizzante. A noi il compito di resistere sotto questo aspetto e di pretendere fortemente che il rispetto del benessere collettivo non diventi un pretesto per annullare ogni libertà, in cui, come tante apine, si vive relegati perennemente in casa e si esce solo per lavorare.
Va sempre ricordato, e qui per fortuna pare ci sia almeno in questa fase diffuso consenso, che l’elevato numero di morti e la più complessiva drammaticità sociale, è stata una conseguenza dei tagli alla sanità, sia nelle strutture che nel personale: se, ad esempio, nei primi anni’80 (al netto di inefficienze, sprechi e corruzioni varie…ah, non è cambiato niente?) i posti letti negli ospedali erano più di mezzo milione, oggi sono poco più di 200.000; allo stesso tempo la spesa destinata alla sanità corrisponde alla soglia minima (6,5% del PIL) di quella che l’OMS ritiene il limite per una sanità minimamente funzionale. Negli ultimi anni i tagli al settore sono stati di svariati miliardi di euro, nel silenzio diffuso. Ed è facile per noi libertari denunciare che somme stratosferiche costantemente vengono elargite al ministero della difesa, per inutili armamenti sempre più sofisticati. Dirlo oggi, pare facile: ma ieri, quanti concordavano che una simile distribuzione, oltre ad essere dannosa, era pure umanamente immorale e immonda? E quanti saremo, a denunciarlo domani?
I vari Governi, senza voler essere retorici, sono stati quindi la causa prima di questo sfacelo, non la soluzione saggia e coraggiosa come ce li vogliono oggi far apparire: nessuno fino a ieri dell’attuale governo ha mai messo in discussione questo modello, anzi. E, pensando al domani, ecco la copertura delle responsabilità: l’unico strumento reale per affrontare il male è, di nuovo, non una critica complessiva al sistema in cui viviamo ma, come per l’ambiente, è da attribuire ai comportamenti individuali. Per cui, nessuno dei politicanti dice che le spese militari vanno da oggi eliminate e destinate alla sanità, ma si preferisce chiudere le persone in casa (e ci può stare, intendiamoci, per un certo periodo e in un’ottica realmente virtuosa e responsabilizzante) ed additare a soli pericoli chi passeggia pur rispettando le distanze sociali, chi va in montagna da solo, chi coltiva il suo orto, ecc. La colpa non è mai del sistema che crea sfaceli, ma dei comportamenti dei singoli. Intendiamoci: che ognuno di noi debba avere comportamenti civili e responsabili è da dare per assodato, ci mancherebbe!, soprattutto per chi ha scelto di vivere secondo determinati ideali e comportamenti. Ma ugualmente, è stato ampiamente dimostrato che ad esempio per quanto riguarda l’ambiente, è il sistema industriale capitalista con le sue emissioni di CO2 e polveri sottili quello che ci ammazza, più che il tizio che butta una cartaccia per terra e si meriterebbe una pedata nel sedere. Lo stesso dicasi per questa emergenza: si muore perché mancano medici ed attrezzature mediche, perché sono stati tagliati ospedali e pronto soccorsi, perché il settore è stato selvaggiamente privatizzato, non certo perché il pensionato esce a coltivare l’orto o il podista fa una corsetta!
Un altro aspetto drammatico è stato che, di nuovo, si sta cercando di confondere le devastazioni prodotte dal sistema politico-economico attuale facendo volgere le attenzioni popolari in nuove forme di nazionalismo: dobbiamo essere tutti “uniti”, cantare inni e sventolare tricolori, perché solo così ce la faremo. E in questa astrusa unità di dominanti e dominati, ecco il vicino di casa che insulta il podista, ecco lo stigma per chi prova ad articolare riflessioni diverse da quelle mainstream (e non ridicol-complottarde) ma, si diceva una volta, “di classe”: NON SIAMO TUTTI SULLA STESSA BARCA, se il virus è democratico e non distingue, responsabilità e difficoltà erano e sono diverse, drasticamente diverse. Il nazionalismo è da sempre il virus che viene strumentalmente diffuso in situazioni d’emergenza per resettare tutto, confondere la gente, cercare improbabili comunioni d’intenti e trovare improbabili capri espiatori e soluzioni.
In questo panorama stiamo noi, con le nostre contraddizioni, con i nostri limiti, ma anche con la nostra identità irriducibile, con le nostre caratteristiche, con la nostra determinazione. USI è un sindacato piccolo, ma sta crescendo: la nostra forza reale è che chi ci ha conosciuto, di noi si fida, sa che noi non tradiremo. Parliamo di sindacati di base, ebbene: da noi in USI niente è deciso se non passa da assemblee degli iscritti/e, dai congressi; nessuno di noi guadagna un euro; tutti gli incarichi sono a rotazione continua (ben lontani quindi da certe “monarchie” di altre sigle): noi siamo ciò che diciamo di essere. Continuiamo a dirci libertari, anarcosindacalisti, perché abbiamo continua conferma del fallimento di ogni ipotesi ideologica e pratica statolatra e neoliberista: un altro mondo è possibile, si diceva, e a questo orizzonte noi guardiamo, ma non con gli occhi ingenui e vanamente retorici: fare sindacalismo, anche e soprattutto come lo facciamo noi, significa sporcarsi le mani, cercare di comprendere le contraddizioni del presente e tenere saldo il timone, ma anche migliorarsi, dare soluzioni concrete credibili a chi ce lo chiede, non parole e frasi fatte. Quindi autorganizzazione vera, sportelli sindacali autogestiti, avvocati quando serve, mobilitazione diretta e continua, solidarietà: queste le nostre armi.
Nonostante le enormi difficoltà del periodo che hanno pesantemente condizionato l’azione di un sindacato come il nostro che fa dell’assemblearismo e dell’azione diretta la sua natura, abbiamo provato generosamente ad autorganizzarci un po’ ovunque: se pensiamo ai settori più colpiti, innumerevoli sono state le nostre prese di posizione e mobilitazione nelle coop. sociali e nei vari ospedali dove siamo presenti. O, ancora, continuando l’attività di supporto degli sportelli sindacali e, come a Firenze e a Milano, attivandosi direttamente nel campo della solidarietà concreta.
Siamo in un periodo particolare dell’anno, quello che più ci piace, quello del 25 aprile e del Primo maggio, perché ci ricorda la fine del fascismo (anche se non è mai morto davvero), le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici, il nostro eroismo, la nostra storia, i nostri ideali: questa è l’unica identità in cui ci riconosciamo, non quella dei padroni e dei governanti! Il nostro lavoro è sempre più difficile, perché dobbiamo contare solo su noi stessi, ed in un contesto contrassegnato da passività sociale e delega, è sempre più difficile trovare compagni/e che solo per una forte idealità hanno voglia di sacrificare tempo ed affetti. E’ difficile per noi che abbiamo nel cuore e nel cervello un mondo diverso continuare a sognare e a resistere. Ma non abbiamo alternativa, anche perché non riusciremmo a non farlo.
A noi piace ciò che facciamo, e continueremo a farlo. Questo è il senso del nostro agire quotidiano, e per questo non saremo mai sconfitti.

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